Pascoli il poeta dell’orto o Pascoli il poeta ortolano. Definirlo così non è una forzatura, ma un dato di fatto. Non solo Pascoli ha dedicato un’intera poesia all’orto (‘L’oliveta e l’orto’), ma cita l’orto come rifugio dai dolori della vita (‘Nebbia’), paragona la vite a se stesso (‘La vite’) e usa le piante come tema ricorrente nelle sue rime, tanto da titolare un’intera sua raccolta ‘Myricae’ (nome latino di tamerice). E come se non bastasse paragona il poeta all’umile ortolano.
In uno dei suoi scritti Giovanni Pascoli definisce così il mestiere del poeta: “Il poeta…é, per usare immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.’
Il poeta come un gentile ortolano che usa le parole come foglie di cavolo e le frasi come rami di salice. E ci commuove quando, nella poesia ‘L’oliveta e l’orto’, ci racconta i suoi sentimenti prima per gli olivi e poi per radicchi e agli, per cipolle e girasoli.
‘E come l’amo il mio cantuccio d’orto,
col suo radicchio che convien ch’io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:
o primavera! con quel verde d’agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi riccioluti càvoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch’hanno un odore… come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d’aprile; ed alto, co’ suoi capi
rotondi, d’oro, il grande girasole
ch’è sempre pieno del ronzìo dell’api!”
Ma ancora più struggente è quando nella poesia ‘Nebbia’ chiede quasi pregando, proprio alla nebbia, di aiutarlo a vedere soltanto il suo orto, angolo di pace e di ritiro, ‘…Ch’io veda soltanto la siepe dell’orto, la mura ch’ha piene le crepe di valeriane…’ e ancora ‘…Ch’io veda i due peschi, i due meli, soltanto, che danno i soavi lor mieli…’ e di escludere le cose lontane , quelle che ‘son ebbre di pianto’ e ‘che vogliono ch’ami e che vada!’.
E se leggiamo la poesia ‘La vite’ capiamo che l’orto per Pascoli non è solo oggetto di rime forbite o romantiche odi, ma lui vive l’orto, lo pratica e indossa le vesti del contadino ‘…mentre i peschi mettono il fiore, cammino, e mi pende all’uncino la spada dell’agricoltore. Il pennato porto… ‘. Un contadino che sa potare con abilità ‘…ti taglio ogni vecchio sarmento, ti lascio tre occhi e due capi’.
E’ vero o no che l’orto è pura poesia?
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[…] tratto da: https://www.inorto.org/2012/01/pascoli-il-poeta-ortolano/ […]
[…] Ma quanto mi appassiona tutto questo parlar di cavoli! E già che ci siamo, perchè non ricordare il poeta “ortolano”? “In uno dei suoi scritti Giovanni Pascoli definisce così il suo mestiere: “Il poeta … é, per usare immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori.”. (Fonte: Pascoli, il poeta ortolano). […]
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